martedì 19 novembre 2013

Rousseau e Berlusconi, un conservatorismo senza nulla da conservare

Vi sono due grandi visioni della democrazia che si ritrovano in moltissimi autori, sia antichi che moderni e contemporanei. La prima, che chiameremo "progressista", o "idealizzata", e che troviamo nella sua massima espressione in Rousseau, nei sogni anarchici, e in moltissimi autori della sinistra, da quella marxista, a quella liberale, trova nell'autodecisione, nell'autogoverno collettivo, nella partecipazione del singolo al processo decisionale del gruppo, il valore effettivo della democrazia e della libertà. 
L'altra visione della democrazia, che chiameremo "disincantata", è invece tipica del conservatorismo, e ancor meglio del conservatorismo liberale. Secondo questa concezione, la democrazia non è un valore tanto per il fatto che il processo decisionale sia esteso a tutti, o possa inglobare la totalità delle persone in un percorso libertario, quanto perchè limita, tramite i vincoli della decisione a maggioranza, il potere del governo, il quale può essere sempre sostituito nel modo più pacifico possibile: con delle libere elezioni. L'estensione dei poteri assembleari su una quantità indefinita di ambiti -  implicata dalla visione idealizzata della democrazia, che vede la correttezza e l'efficacia della decisione come dipendente dal tipo di processo decisionale utilizzato, e non dalle sue conseguenze effettive - è il sommo male, la degenerazione della democrazia. L'onnipotenza della maggioranza infatti  trasformerà inevitabilmente le istituzioni legislative in un insieme rappresentanti di interessi di parte, da gruppi di interesse, che premeranno su questo o quell'altro politico per ottenere privilegi, a scapito di tutti. L'insieme delle risorse sociali di un paese verrà spartito a seconda di quanto i gruppi di potere potranno apportare alla politica in termini di consenso elettorale. Tutto ciò si tradurrà in una perdita di valore. Da qui l'idea che lo stato debba avere confini certi, e che debba essere regolato da leggi superiori, come quelle contenute in una costituzione che impongano il governo della legge su quello degli uomini. 
Nella visione idealizzata della democrazia, la maggioranza rappresenta la volontà comune, una sorta di spirito del popolo che si incarna nella decisione. L'individuo entra nel gioco democratico come parte di un tutto, che alla fine ne rispecchierà la volontà depurata dal suo egoismo. Nella visione disincantata, il voto a maggioranza ha soprattutto una natura prudenziale: le volontà degli uomini non possono essere sommate. Le due concezioni della democrazia, una come realizzazione dello "spirito" popolare, della "volontà generale" l'altra come limite al potere de governo, implicano perciò due visioni del maggioritarismo. 
Tutto ciò è abbastanza scontato; ciò che è meno scontato è che nella storia recente italiana è avvenuto un rovesciamento dei valori a proposito della democrazia, e in particolar modo del maggioritarismo. 
E' stata infatti la destra conservatrice berlusconiana a far propria l'idea di volontà popolare, e  la tendenza a ridurre tutti gli istituti della democrazia a quello del voto a maggioranza. La maggioranza non soltanto vince, ma, in quanto espressione della volontà popolare, essa incarna il popolo stesso, e dunque, tutto ciò che da essa deriva, è intrinsecamente giusto. Questa manfrina è stata proposta per venti anni di seguito, incoraggiata e ipostatizzata da tutta la "intellighenzia" dei cosiddetti liberali italiani, sulla stampa. La democrazia come insieme di limiti al potere, come governo di una legge di rango superiore a quelle prodotte dagli organi legislativi è stata completamente negletta. Per vent'anni, la retorica della maggioranza, la lotta contro la Corte Costituzionale e la lotta contro la magistratura ha caratterizzato la nostra destra. Una destra rousseauiana che oggi ci propone nuovamente il ritornello della "rivoluzione liberale", senza aver però imparato la canzone della libertà.  

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