Per anni in Italia si è riversato tutto il carico della protezione e
della tutela sui lavoratori anziani. Si diceva, siccome sono anziani,
allora sono anche mentalmnte vecchi, e dunque obsoleti, e allora meno
produttivi, perciò dobbiamo salvarli dalle selvagge scorribande della
globalizazione. Poi, io, scorrendo non ricordo più quale fogliaccio
divulgativo di economia, scopro che è proprio vero l'opposto. I lavoratori
anziani sono stracarichi di esperienza, sia specifica del loro campo,
che generale dell'ambiente di lavoro. Ed hanno accumulato talmente
tante capacità, spesso addirittura inconsapevolmente, che sono molto più
produttivi dei giovani. Del resto, se vi voleste far rifare la cucina,
vi affidereste a vostro nipote che fa l'apprendista falegname o al
falegname con 20 anni di esperienza che gli sta dietro? Così, mi sono
detto, hanno sbagliato tutto, forse dovevano favorire i giovani, più che
favorire gli anziani. In realtà nemmeno questo. Sarebbe stato peggio.
Le riforme del lavoro degli anni '90 portarono tutto sommato a periodi
discreti per il tasso di occupazione. Proteggere il posto di lavoro dei
giovani avrebbe significato semplicemente disincentivare le assunzioni,
per lo stesso motivo per cui se negli anni 50 non vi fosse stata nessuna
forte riprovazione morale contro il concubinaggio e il matrimonio fosse
stato, come efettivamente era, indissolubile, adesso nessuno di voi
sarebbe figlio di genitori sposati. Ma la strada scelta fu quella del
cosiddetto "dualismo" protettivo, cioè protezionista. Io credo che
questo accadde per mero lobbysmo. Mi sono abituato a credere che quando
una cosa la fa/non fa sia la destra che la sinistra, allora è raccolta
di voti di lobby. Gli anziani sono di più, o forse contano di più dei
giovani, o semplicemente votano in maniera più ordinata e unitaria, e
con un tasso di partecipazione al voto maggiore, mentre i giovani sono
giovani, e non sanno nulla del loro futuro, e per questo glielo rubano.
sabato 20 settembre 2014
mercoledì 17 settembre 2014
Riformismo e rivoluzione
Il dualismo riforme rivoluzione ha
riempito il dibattito nella sinistra socialista e comunista fin dall’800. Poi,
anche quando le uniche forze rimaste nominalmente rivoluzionarie sono decedute,
la bandiera del riformismo ha continuato a sventolare, pur priva di un
contraltare. Il Riformismo, talvolta declinato nel destrorso “riformatorismo”,
è stato decantato da tutte le
forze politiche.
Noi crediamo che francamente esso non
significhi più nulla. Con riformismo infatti si sono andati coprendo tutti
quegli altarini che, una volta scoperti, hanno solo mostrato la miseria di chi,
con quel termine, incensava la propria politica fatta di compromessi al
ribasso, e di cambiamenti gattopardeschi.
Nella pratica utilizzando il termine
riformismo si è voluto dare un nome alla moda alla politica delle riformicchie,
delle mezze riforme, delle riforme fatte con i sindacati e con la
Confindustria, degli accordi bi tri e
quadrilaterali, che governi ultramaggioritari e impediti credevano potessero
bastare a curare la malattia di cui il nostro Paese soffre da almeno vent’anni
(almeno!).
Tale malattia consiste in un tumore
nodulare diffuso, che mai si capisce essere in metastasi o meno (e
riformisticamente non lo è).
Vi sono infatti nel nostro mare
migliaia di isole dalle quali si deve fuggire, e dalle quali non si riesce a
fuggire, in modo tale che se si salpa si è respinti a terra, e se si rimane a
terra si è spinti in mare dal vento.
No. Non è tempo per il riformismo.
Proprio perché vi è bisogno di riforme.
I doppi legami non si sciolgono col
consenso del malato. Si recidono, e si strappano come denti marci se
necessario. E una tale riforma non si fa con la concertazione, con il tavolo
del dialogo. Certo, la libera discussione è sempre benvenuta, ma che sia di
consiglio, di contributo: poi, chi deve decidere, decida, velocemente, ma
soprattutto costui o costei si dia finalmente briga di dispiegare le truppe e
di farle rotolare giù dall’altura. E se vi sono minatori che si oppongono ai
loro bastoni, ebbene siano bastonati!
Sì. Noi crediamo che vi debba essere
una rottura, uno strappo, un piano d’azione eroico ma dall’esecuzione fredda e
precisa. Vogliamo chiamare tutto ciò una rivoluzione? Perché no. Vi sono state
rivoluzioni non violente. Ma vi deve essere un regime change, non una riforma. Una riforma totale di tutte le
istituzioni (o della gran massa di esse) da attuare in un tempo relativamente
breve, secondo un piano stabilito, sotto il controllo dell’Europa.
Ma tale regime change va deciso, una
volta per tutte (per esempio con un referendum) e applicato senza impacci, all’intera
struttura istituzionale, nel più breve tempo possibile.
Per questo ci vuole un’attitudine
rivoluzionaria e una certa fede nel cambiamento. Lo strappo istituzionale che
rompe con il passato e decide il presente va praticato nella non violenza,
naturalmente, ma senza paura di far male però.
Come ? beh, certo non è facile dire
come. Ma vi deve essere un modo nel quale una Nazione rinasce nei valori che si
era data, senza successo, rinnovando, restaurando, riscoprendosi comunità
civile, comunità umana, in una parola, Repubblica!
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