Il dualismo riforme rivoluzione ha
riempito il dibattito nella sinistra socialista e comunista fin dall’800. Poi,
anche quando le uniche forze rimaste nominalmente rivoluzionarie sono decedute,
la bandiera del riformismo ha continuato a sventolare, pur priva di un
contraltare. Il Riformismo, talvolta declinato nel destrorso “riformatorismo”,
è stato decantato da tutte le
forze politiche.
Noi crediamo che francamente esso non
significhi più nulla. Con riformismo infatti si sono andati coprendo tutti
quegli altarini che, una volta scoperti, hanno solo mostrato la miseria di chi,
con quel termine, incensava la propria politica fatta di compromessi al
ribasso, e di cambiamenti gattopardeschi.
Nella pratica utilizzando il termine
riformismo si è voluto dare un nome alla moda alla politica delle riformicchie,
delle mezze riforme, delle riforme fatte con i sindacati e con la
Confindustria, degli accordi bi tri e
quadrilaterali, che governi ultramaggioritari e impediti credevano potessero
bastare a curare la malattia di cui il nostro Paese soffre da almeno vent’anni
(almeno!).
Tale malattia consiste in un tumore
nodulare diffuso, che mai si capisce essere in metastasi o meno (e
riformisticamente non lo è).
Vi sono infatti nel nostro mare
migliaia di isole dalle quali si deve fuggire, e dalle quali non si riesce a
fuggire, in modo tale che se si salpa si è respinti a terra, e se si rimane a
terra si è spinti in mare dal vento.
No. Non è tempo per il riformismo.
Proprio perché vi è bisogno di riforme.
I doppi legami non si sciolgono col
consenso del malato. Si recidono, e si strappano come denti marci se
necessario. E una tale riforma non si fa con la concertazione, con il tavolo
del dialogo. Certo, la libera discussione è sempre benvenuta, ma che sia di
consiglio, di contributo: poi, chi deve decidere, decida, velocemente, ma
soprattutto costui o costei si dia finalmente briga di dispiegare le truppe e
di farle rotolare giù dall’altura. E se vi sono minatori che si oppongono ai
loro bastoni, ebbene siano bastonati!
Sì. Noi crediamo che vi debba essere
una rottura, uno strappo, un piano d’azione eroico ma dall’esecuzione fredda e
precisa. Vogliamo chiamare tutto ciò una rivoluzione? Perché no. Vi sono state
rivoluzioni non violente. Ma vi deve essere un regime change, non una riforma. Una riforma totale di tutte le
istituzioni (o della gran massa di esse) da attuare in un tempo relativamente
breve, secondo un piano stabilito, sotto il controllo dell’Europa.
Ma tale regime change va deciso, una
volta per tutte (per esempio con un referendum) e applicato senza impacci, all’intera
struttura istituzionale, nel più breve tempo possibile.
Per questo ci vuole un’attitudine
rivoluzionaria e una certa fede nel cambiamento. Lo strappo istituzionale che
rompe con il passato e decide il presente va praticato nella non violenza,
naturalmente, ma senza paura di far male però.
Come ? beh, certo non è facile dire
come. Ma vi deve essere un modo nel quale una Nazione rinasce nei valori che si
era data, senza successo, rinnovando, restaurando, riscoprendosi comunità
civile, comunità umana, in una parola, Repubblica!
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