FUNZIONE E FINALITÀ
Stati dell’azione
Affinché
una serie di miei atti, di movimenti, divenga comprensibile - divenga cioè
un’azione nel senso proprio - bisogna
che chi mi guardi afferri il senso di
quegl’ atti. La serie di movimenti del mio braccio acquisisce la denominazione
di azione se essa determina un cambiamento della realtà ambientale pensabile
come voluto, da me ricercato, e procurato ad un fine precipuo, secondo un corso
d’azioni spiegabile in qualche termine, cioè comprensibile, denso di
significato.
Tramite quel cambiamento nella realtà viene
conseguito ciò che potremmo chiamare lo
stato finale della mia azione.
Lo stato motivazionale è invece il punto di
partenza dell’azione. Ciò che viene attivato o da imput percettivi o da imput
interni, legati alle sensazioni che il mio stesso corpo mi procura. La mia sete attiva il mio comportamento
finalizzato di bere acqua. Stato motivazionale e stato finale non sono la
medesima cosa, ma vertono sul medesimo oggetto.
La mia sete, come sensazione, e conseguente desiderio di bere, e la soddisfazione della sete vertono entrambe
su SETE. Ma la mia sensazione di sete non è la soddisfazione della sete, così
come entrambe non corrispondono a SETE. I due stati piuttosto sono delle
declinazioni di SETE, il primo declina l’oggetto al modo ottativo, il secondo
al modo indicativo. La sensazione di sete causa un desiderio di bere in modo
tale che potrei esprimere verbalmente questo stato motivazionale con
un’espressione del tipo “vorrei bere!”. Lo stato finale può essere espresso con
le parole “sto bevendo!”.
Lo Stato
operativo è l’insieme di tutte quelle credenze che orientano ed emendano il
corso dell’azione. Per es. il fatto di credere che l’acqua sia in cucina piuttosto
che in sala modifica il tipo di comportamento che avrò, in caso abbia sete e
voglia bere.
Scopi
Lo scopo
è lo stato di realtà, lo stato di cose (il mio bere effettivamente l’acqua)che
la mia azione va a causare al fine di conseguire lo stato finale.
Lo scopo
non è lo stato finale, ma solo ciò che permette di perseguire lo stato
finale. Stato finale e Stato motivazionale vertono su un medesimo oggetto, cioè
su quello che, tra poco, chiameremo il concetto dell’azione. Mentre però tra SM
e SF vi è una identità d’oggetto, non così tra i due stati e lo Scopo.
Prendiamo
un caso semplice: quando un killer professionista uccide un povero malcapitato
non soddisfa il suo desiderio di uccidere, bensì quello di essere remunerato
per l’omicidio. SM “desidero i soldi” e SF “soddisfo il mio desiderio di avere
soldi” non vertono affatto sull’uccidere qualcuno, ma sul concetto SOLDI. Affinché
vi sia azione, dunque, non è sufficiente che un corpo realizzi uno scopo, ma è necessario che esso realizzi uno stato
finale. In realtà, quest’ultima è, come vedremo, una condizione necessaria
ma non sufficiente affinché vi sia azione. Lo stato finale infatti verte su un
oggetto, che è quello compreso dal concetto dell’azione, ed è a questo che
bisogna riferirsi nel determinare le condizioni dell’azione.
Ma,
che dire di quei comportamenti che davvero non sembrano avere alcun altro
obbiettivo che il loro scopo pratico? Vi sono di certo numerose attività che
non paiono aver alcun altro scopo che l’essere prodotte, come per esempio molti
giochi. Se io gioco a calcio, non è per ottenere uno stato finale diverso da
quello di giocare a calcio (almeno se lo faccio per divertimento).Tornando
all’esempio del bere per sete, vi è
infatti una differenza evidente tra “bere un bicchier d’acqua” e “calmare la
sete,”, ma che differenza c’è tra “giocare a calcio” come Scopo e “giocare a
calcio” come SF? Si potrebbe dire che quando io gioco a calcio soddisfo il mio
desiderio di giocare a calcio, e che dunque io, per accogliere nella mia
intimità di soggetto questa soddisfazione devo rappresentarmela, devo cioè
farne uno stato mentale. Ma, potrei dire, che questo altro non è che da
intendersi che io mi rappresento meramente il mio gioco del calcio, in
contraddizione con quanto detto prima, cioè che lo Stato Finale non verte sul
medesimo oggetto dello scopo. È però d’altro canto evidente che se gioco a
calcio (e non lo faccio per lavoro, o perché costretto ecc.) allora lo stato
finale debba vertere in qualche modo sul gioco in sé.
Il
problema qui è stabilire cosa si debba intendere con giocare al calcio. Il
calcio è un gioco che ha delle regole, delle pratiche consolidate, ma che
soprattutto esige da chi lo gioca una vasta gamma di movimenti tipici, di
gesti, che chiamano in causa numerosi schemi senso motori e abilità. Se noi
potessimo parcellizzare tutti questi movimenti ed elementi compositi, e
disporli davanti a noi avremmo un repertorio finito di oggetti (quali
movimenti, atteggiamenti, regole ecc.) che potrebbero definire il gioco del
calcio. Ma nessuno di questi singoli movimenti,(e altri elementi) o anche
coppie o triplette potrebbe in sé e per sé definire il gioco del calcio. È solo
quando questi elementi vengono prodotti serialmente, in maniera competente e
articolata, in modo da rivelare una certa tipicità dei gesti (come per es. non
prendere il pallone con le mani) che avremmo a che fare con il gioco del
calcio. È dunque questa complessa articolazione che rende delle sequenze di
“nudi gesti” un gioco difficile che richiede grandi abilità atletiche.
In
conseguenza di quanto appena detto, tornando all’esempio, potremmo dire che il
gioco del calcio come Scopo (cioè come evento, come stato di cose reale) non è
ciò che viene rappresentato effettivamente nello stato interno “sto giocando a
calcio”. In realtà, se vogliamo rappresentarci il calcio come Scopo, dovremmo
piuttosto riferirci a quella congerie di elementi, o meglio, a quel
sottoinsieme di elementi, preso nell’insieme di tutti i movimenti possibili, che vengono effettivamente messi in atto dal
soggetto mentre gioca. Ma sarebbe davvero sensato, perciò, sostenere che lo Stato finale dell’azione di
giocare a calcio sia compiere un sottoinsieme di movimenti x nell’insieme y? Non
è ciò che normalmente si intende con il giocare al calcio. In altre parole chi
gioca al calcio non rappresenta, nel suo stato finale, lo Scopo, bensì una qualche forma concettuale del calcio, un insieme di elementi tenuti insieme
da somiglianze, da affinità, da una fitta rete di reciproche implicazioni e da
nessi di varia natura. Allo stesso modo, sarebbe poco plausibile sostenere che
chi desidera giocare, in realtà desideri compiere una mera sequela di
movimenti.
Dunque,
Stato finale e Scopo differiscono non solo in alcuni casi evidenti (come quello
dell’acqua o del killer), ma non sono mai la rappresentazione l’uno dell’altro.
Lo Stato finale è cioè autonomo rispetto
allo Scopo, anche se è lo scopo a realizzare lo stato finale.
Il concetto dell’azione
Lo stato finale verte
su, o è rappresentazione di, un concetto, non di un set di movimenti.
il concetto consiste in una serie di relazioni tra elementi eterogenei
quali movimenti, rappresentazioni e schemi corporei. Tali elementi sono sistematicamente riconoscibili come
appartenenti ad un unico ambito oggettuale. Il concetto permette primariamente
di riconoscere, anche implicitamente, e inconsapevolmente un certo numero di
atti come riferiti ad un'unica attività. Esso è composto da
rappresentazioni consce e inconsce e da schemi motori. Lo stato finale e lo
stato motivazionale, dunque, vertono
sul medesimo concetto, che è IL CONCETTO DELL'AZIONE. Il CA è ciò che rende un
set di atti atomici una azione. il Concetto
dell’Azione è ciò che informa ogni elemento del flusso rappresentazionale di un
sistema finalistico, dagli stati motivazionali, a quelli operativi e
finali, e da l'orientamento di fondo al corso dell'azione stessa
Non è sufficiente
dunque, al fine di formare un'azione, che un soggetto consegua un certo
stato di cose, ma piuttosto che questo stato di cose sia determinato, nella sua
forma concreta, almeno in via approssimativa, dal concetto che informa i suoi
stati. Noi riconosciamo l'azione del bere poiché rinvenimento in quei gesti per
lo meno una qualche vestigia dello stato finale della sedazione della sete, la
quale verte sul CA SETE. Potremmo sbagliarci. chi beve potrebbe farlo per
un motivo diverso che sedare la sete. Ma allora rileveremo semplicemente il
nostro errore interpretativo, non l'assenza di un concetto
Lo scopo, o stato del
mondo, realizza lo stato finale, nel senso che lo causa. Se non bevo non posso
trasformare il mio stato motivazionale in finale(a cui, in questo caso, si
accompagna anche la sensazione viscerale della soddisfazione della sete). Ma il
CA in sé non è causato dallo scopo. Esso è rappresentato nel soggetto. Poiché
il mio CA è già in me, allora io perseguirò il corso di azioni x invece che y,
ma sarà x invece che y poi a causare lo stato finale di quel CA. Se devo
costruire qualcosa, scelgo io gli utensili adatti, e saranno questi poi a dare
vita a quel qualcosa.
Affinché vi sia azione, cioè serie di atti finalizzati, vi deve
essere un concetto dell'azione rinvenibile in quegl' atti.
Fine desiderio e senso
Lo stato finale di
un’azione non è il suo senso. Il
senso di un’azione è connesso a tutti quegl’aspetti dell’azione che ci lasciano
inferire che essa non è formata da un insieme casuale di gesti (non è assurda),
ma che invece essa è dotata di un ordine e una coordinazione interna. Il nucleo gestuale di essa deve poter essere
compreso, o meglio, spiegato per tramite di una verbalizzazione, di una
descrizione, sottoponibile ad un’opera di verificazione.
Quale sarà il senso
dell’azione di qualcuno che si alza, prende dell’acqua, e beve? Avere sete?
Sedare la sete? In altre parole, qual è il corno dell’azione che devo prendere
per spiegare un’azione? Lo stato motivazionale (si è alzato perché aveva sete), o quello finale (si
è alzato al fine di bere, e sedare la
sete)? Che ragione ho io di ritenere di dover spiegare quel comportamento con l
desiderio di bere piuttosto che con la finalità di bere? Entrambi gli aspetti,
in realtà, forniscono una ragione di quello che stiamo vedendo, e ci rendono
edotti sulla coordinazione interna, sull’orientamento dell’azione. Ma tali stai
acquisiscono i loro caratteri specifici alla luce di un concetto specifico. Non
v’è uno stato motivazionale “puro”, del tutto formale, uno schema buono per
tutte le stagioni che i concetti riempiono di un significato individuale,
finito. Voler calmare la sete non è la stessa cosa di voler fare l’astronauta,
o voler vincere alla lotteria. Tutti questi stati motivazionali possono fungere
da cardine di un’azione, ma mentre nel caso della sete il desiderio, essendo
derivato da una sensazione ben precisa, è facilmente scrutabile, il desiderio di fare l’astronauta ha una origine
molto più oscura. Da quali sensazioni o imput deriva “’l’eccitazione del nostro
snc” che ci porta alla coscienza il desiderio di diventare astronauta? È
difficile non rischiare l’ipostasi, e inventarsi un mondo dei desideri, il cui
formarsi è totalmente indipendente dai contenuti. Vi è invece un processo di
concettualizzazione, nel senso espresso poc’anzi (insomma una
concettualizzazione solo parzialmente intellettualistica) che è coevo al flusso
comportamentale con cui l’essere umano (ma anche animale) si relaziona col
mondo. Il processo di concettualizzazione permette di interpretare il corso
d’azioni secondo le pietre angolari del desiderio e della finalità, perché
conferisce coordinatezza al flusso comportamentale. Ma è appunto tale
coordinatezza che rende possibile per noi prefgurare dei fini e dei desideri
nelle altre persone
Il senso dell’azione è
perciò rinvenibile anche negli stati motivazionali e in quelli finali, ma solo
nella misura in cui vi è un processo di concettualizzazione, attribuibile al
soggetto, che ci permette di discernere gli accadimenti del mondo dai
comportamenti di quello, che ci permette cioè di osservare dei nessi, delle
regolarità (con dei limiti, come vedremo) nel comportamento del soggetto, che
gli oggetti inanimati non mostrano di avere.
Definalizzazione dei comportamenti
Se dico che Tizio si
alza e beve dell’acqua, posso spiegare la sua azione dicendo che Tizio ha sete,
o che Tizio ha sedato la sua sete. Ma posso spiegarmi meglio se dico che Tizio
ha svolto un SETE comportamento. Se mi sbaglio, e capisco invece che Tizio ha
bevuto solo per schiarirsi la voce, allora dovrò dire che egli ha svolto un
RAUCEDINE comportamento. In questo modo i sensi delle azioni vengono sia definalizzati che demotivazionalizzati.
Saranno altresì i fini e le motivazioni a fornire delle chiavi interpretative
del concetto. Ma tali chiavi interpretative sono valide nella misura in cui
chiarificano ed esplicitano il concetto dell’azione in modo tale da poterlo
rendere adatto ad una verbalizzazione passibile di verificazione.
Organi e concetto dell’azione
Vi possono essere atti
che realizzano scopi, cioè particolari stati del mondo, senza che vi sia
finalità. Vi sono infatti entità che, pur essendo molto differenti dai soggetti, sembrano tuttavia essere capaci
di realizzare stati del mondo: gli organi.
Gli organi sono parti degli esseri viventi,
e sono costituiti a loro volta di parti quali le cellule e tessuti. Gli
organi sono caratterizzati da una struttura e da una o più funzioni. La
struttura è determinata dall'insieme delle sue parti, cioè dall'insieme delle
sue cellule e tessuti; essa è specifica, cioè è diversa da organo a organo, ed
è normalmente specializzata su una o più funzioni. La funzione consiste in
tutti quei cambiamenti interni, all'interno dell'organo stesso, ed esterni, sia
in organi e tessuti prossimi che remoti, - ossia nell'organismo in generalesia
nell'ambiente esterno - che
l'organo produce nel corso della sua normale attività.
Cosa succede quando il pancreas produce insulina a fronte di
un rialzo degli zuccheri nel sangue? In realtà il glucosio, cioè lo zucchero,
entra in contatto con alcune popolazioni cellulari specifiche del pancreas, e
questo contatto causa una “attivazione metabolica” che porta il pancreas a
secernere l’insulina, la quale riporterà la glicemia a livelli accettabili per
l’organismo. Si può dire che il contatto del glucosio con le cellule beta causi
una sorta di rappresentazione del livello di glucosio nel sangue nel pancreas,
e che l’”attivazione metabolica” altro non sia che uno stato motivazionale?Naturalmente
no, perché noi non attribuiamo soggettualità all’organo, se non in senso
metaforico. Ma, tra le condizioni perché noi ci facciamo questa idea, e cioè
che il pancreas sia privo di soggettualità, c’è quella per cui noi dobbiamo rinvenire
qualcosa nell’organo che lo distingue dall’organismo nel suo complesso. Gli
organi, infatti, hanno alcune caratteristiche salienti: la persistenza operativa, la scarsa
variabilità di risposta agli stimoli e la netta specializzazione operativa
Anche portando alle estreme conseguenze l’interpreazione
funzionalista evocata sopra, non possiamo immaginare che gli organi producano
qualche tipo di rappresentazione, anche se completamente dementalizzata, perché
la scarsa indeterminabilità della loro azione non permette di afferrare, in
essa, un concetto; in altre parole, la stereotipia di funzionamento preclude la
possibilità di rintracciare soggettualità nell’organo. Se un organismo si
comportasse nello stesso modo di un organo, noi potremmo garantirgli ancora la
denominazione di individuo, ma non potremmo assegnargli nessuna abilità
soggettuale.
Vi è infatti concetto
d’azione solo se posso rinvenire nel comportamento di un individuo una qualche
strategia flessibile, una qualche variabilità di ampio respiro del comportamento,
così da esperire l’indeterminazione dei singoli atti che portano dallo stato
motivazionale a quello finale. Se provo sete, posso risolvere questo
problema in vari modi: per es. alzandomi, se sono seduto, e andando in cucina e
aprire il frigo e bere. Posso bere acqua o limonata. Posso decidere di
rimandare la soddisfazione della sete perché ho qualcosa di più urgente da
fare. Insomma, posso mettere in atto tutta una serie di espedienti psico
comportamentali che rendono il grado di predicibilità del mio comportamento
molto più basso di quello di un organo. L’organo invece si comporta in maniera
tendenzialmente routinaria, e risponde tipicamente solo ad un numero limitato
di stimoli, tramite un numero limitato di azioni
Naturalmente questo grado di predicibilità, nei soggetti
umani, deve rimanere entro certi limiti,
che, in definitiva, sono i limiti a cui il senso comune ci predispone, e che
sono di solito sufficienti affinché la cooperazione sociale vada,
tendenzialmente, a buon fine nel tempo. Se il grado impredicibilità di un
soggetto cresce troppo, infatti, i cooperatori sociali, cioè gli altri esseri
umani, non sono più in grado di esercitare l’interazione sociale in maniera
efficace con lui (malattia mentale). È vero anche l’opposto; anche quando la
predicibilità diventa eccessiva, abbiamo problemi simili (comportamenti
stereotipati).
Organi ad accesso
volontario
Importante, inoltre, è rilevare la differenza tra organi a
cui abbiamo un accesso volontario, e che possiamo usare (come per es. gran pare
della muscolatura) e organi a cui non abbiamo accesso. Non diremmo per es. che gli arti denotino finalità in sé, anche se
hanno una funzionalità molto variabile, poiché ascriveremmo quella variabilità
d’uso al soggetto, non agli arti. Il discrimine qui tra assenza di finalità e
finalità è l’uso volontario dell’organo da parte dell’organismo, non la
disponibilità funzionale dell’organo stesso. Una mano, di per sé, non
esprime nessuna finalità se non come mezzo che il controllo globale
dell’organismo esercita sui suoi movimenti. La funzione della mano consiste nel
suo uso da parte del soggetto, ed è al soggetto che dobbiamo imputare
l’utilizzo di quella funzionalità, non alla mano.
la funzione di un organo volontariamente accessibile è dunque quella di essere d’uso per le finalità
del soggetto? Vedremo più avanti che questo è un modo improprio, anche se
operativamente utile, di esprimersi.
Struttura e funzione
Cosa determina il comportamento di un organo? La sua
struttura e l’ambiente. La struttura,
Il materiale biologico di cui è
costituito un organo, nelle sue caratteristiche specifiche, dispone l’organo all’espletamento di una funzione,
cioè l’insieme degli output dell’attività dell’organo descritti in termini di
modificazioni biochimiche e meccaniche dell’ambiente circostante in senso ampio.
La Teoria dell'Evluzione per Selezione Naturale ci ricorda che a subire la pressione ambientale, e
dunque a subire la selezione differenziale, sono i geni, non gli organi, o gli
organismi. Ma d’altro canto, sono proprio i geni a determinare, o ad influire
sulla conformazione finale di un organo. Tale conformazione deve perciò avere
qualche caratteristica che aumenti o non diminuisca la fitness dell’individuo
di cui l’organo è parte per potersi stabilizzare nel tempo. Questa
caratteristica si realizza quando la struttura dispone l’organo ad una funzione
che, per l’appunto, non diminuisce o aumenta la fitness individuale. Tale
selezione però dipende dalla situazione corrente, e da come l’ambiente, sempre
cangiante, influisce nel “qui ed ora” sui geni, nella loro aleatoria
mutabilità, selezionandoli. Nulla ci
lascia pensare che la funzione “riportare la glicemia a livello ottimale” non
sarebbe potuta essere svolta da un organo diverso dal pancreas, o forse da più
organi insieme. Evidentemente, dato l’ambiente, la forma pancreas era quella
che garantiva maggior adattabilità. La struttura ha perciò autonomia dalla
funzione. Sebbene a noi dunque il
rapporto tra struttura e organo appaia intrinseco e necessario, esso, in
realtà, non lo è. Ci appare così perché la maggior parte dei nostri organi e
tessuti non sono disponibili alla manipolazione volontaria, e tendono a
produrre più o meno sempre i medesimi effetti. Non possiamo avere accesso al
nostro pancreas, o al nostro fegato. È dubbio che possiamo averne al cervello
stesso, e perciò, riteniamo che, in qualche modo, vi debba essere una sorta di
schema necessario che leghi l’organo alla sua funzione. Il fatto che la
struttura del pancreas lo disponga soltanto a due o tre funzioni (glicemia,
digestione ecc.) non vuol dire che queste funzioni siano intrinseche alla
struttura del pancreas. Vuol semplicemente dire che la capacità disposizionale del pancreas è limitata a quelle funzioni.
Non così, per es., per le mani, o le gambe. La capacità disposizionale delle
mani è enorme, ed è per questo che nessuno si sognerebbe di dire che “è
intrinseco alla struttura delle mani prendere l’ombrello piuttosto che salutare
un amico”. Ma la capacità disposizionale
di un organo determina la sua funzione;
tale capacità è data dalla costituzione fisica dell’organo stesso, dalla
sua particolare forma biologica. Mentre
la funzione ha una natura contingente alla forma biologica dell’organo, la
forma biologica ha natura contingente all’ambiente. Il Pancreas produce
insulina al fine di abbassare la glicemia. Ma affinché lo possa fare, bisogna
che vi sia un organismo fatto in maniera tale da far precipitare nel sangue,
tramite il processo digestivo, glucosio. È perfettamente immaginabile un corpo
animale che funzioni senza pancreas, e se
la forma biologica pancreas si ritrova in così tanti organismi è perché
l’ambiente naturale ha favorito i geni che producono pancreas tramite un
processo di selezione differenziale, e non perché vi era una funzione
pancreatica che un qualche organo doveva pur istanziare. Ma è ben possibile non
solo che altri organi avrebbero potuto svolgere la funzione pancreatica, ma
soprattutto che non ci sarebbe stato bisogno affatto di produrre quella
funzione. In un mondo senza glicemia eccessiva non ci sarebbero pancreas. La
funzione cioè consiste nell’insieme degli output finali che un organo produce entro un dato ambiente; se cambia
l’ambiente la funzione o perde di rilevanza, o può addirittura cambiare a
parità di organo, come succede nel fenomeno dell’exaptation.
Non vi è un mondo
astratto delle funzioni che la struttura d’organo va a popolare con le sue
caratteristiche precipue; vi è invece il meccanismo evolutivo che produce tanto
le strutture che le funzioni, o, meglio, le funzioni solo in quanto produce le strutture.
Stati finali del
mondo
Mentre l’azione determinata dal concetto
conduce a modificazioni del mondo come scopi, che realizzano stai finali, (a
loro volta informate dal concetto), l’attività d’organo conduce a modificazioni
dello stato del mondo come stati finali
del mondo. Detta altrimenti, dato
l’organo O, e la risultante di tutte le attività di O come l’insieme x, in
termini di modificazioni biomeccaniche del mondo che quell’attività produce, lo
SFM di O è identico a x, senza ulteriori specificazioni.
A tal proposito è bene ribadire, nel caso della mano, che la
sua funzione non consiste, per esempio, nel prendere oggetti, oppure compiere
altri atti di questo tipo. La funzione
prensile della mano consiste invece nel produrre quell’insieme di modificazione
di stato (tensione delle dita, esercizio di pressione su oggetti, rotazioni,
tiramento di tendini ecc.) che dispongono l’organismo, visto nella sua
interezza di soggetto, a prendere gli oggetti. La presa di oggetti perciò
diventa un atto, cioè parte di un flusso comportamentale finalizzato, solo
quando esso è interpretabile alla luce di un concetto d’azione, il quale è da
imputare al soggetto, e non all’organo. Dire
“la mia mano prende il bicchiere” ha senso solo se la locuzione è interpretata
in termini metaforici; ma è giusto invece sostenere che “uso la mia mano per
prendere il bicchiere”? si potrebbe arguire dal fatto che la mia mano altro non
è che un’insieme di disposizioni prensili, che tale insieme abbia
essenzialmente una funzione mediale: la mano è mezzo per prendere. Ma, se scomponiamo un’azione in atti, in
realtà, noi non facciamo altro che rilevare come questi atti corrispondano
anch’essi ai medesimi concetti dell’azione che l’azione compiuta. Tutti i
movimenti che compio dal portare la mia mano da lungo il fianco dov’era, al
bicchiere acquistano un afflato finalistico in forza del medesimo concetto
d’azione SETE. La differenza tra essi e lo Scopo è che essi realizzano stati
intermedi del mondo, che acquistano la loro intermedietà solo alla luce del
concetto dell’azione. Ma, a ben vedere, non sono “Io” che prendo il bicchiere,
ma è la mia mano a farlo. Anche quando dico che sono io a farlo, dico qualcosa
dal sapore altrettanto metaforico di quando dico che è la mia mano a farlo. Dir
così, e prenderlo in maniera letterale, presuppone che vi sia un IO scevro di
arti, che usa un arto per fare una cosa che, senza arti, non potrebbe fare.
Questa concezione cartesiana del prendere lascia abbastanza perplessi, poiché,
per l’appunto, presuppone un IO incorporeo. A questo si può rispondere che in
effetti non è questo IO virtualmente privo d’estensione a prendere, ma è l’organismo ad agire prensilità in relazione
ad uno o più oggetti del mondo, e
che dal modo in cui questo organismo
agisce questa prensilità, si può inferire, secondo quanto detto prima
(impredicibilità parziale, indeterminazione e varietà comportamentale) che esso
si stia producendo in un concetto d’azione, cioè che quel che sta facendo ha un
senso. Quando prendo il bicchiere, è in
realtà il mio organismo che si mobilita, in modo diverso a seconda delle
circostanze, attivando una funzionalità massiva, la quale ha come risultato (tra
gli altri)anche quello di esercitare prensilità nei confronti del bicchiere. Perciò,
a rigori, non si può dire che io usi
la mia mano per prendere il bicchiere, perché non vi è un io distinto dal suo
organismo costituito in modo tale da permettere una relazione io/corpo di tipo
strumentale. Vi è piuttosto un organismo – io che esercita continue modificazioni
dello stato del mondo, e lo fa con una complessità tale, con una varietà tale
di comportamento da lasciare presupporre un
concetto dell’azione di quello che fa, e in modo tale che alcune di queste
modificazioni sono avvertite, con maggiore o minore intensità, come espressioni
di volizioni interne da parte del soggetto. Io non uso la mia mano, io sono
la mia mano nelle sue dinamiche funzionali, le quali sono accompagnate da
rappresentazioni, ma soprattutto da rappresentazioni di volizioni che vertono
sulla mia mano. Ovviamente lo schema strumentale per parlare degli organi ad
accesso volontario è linguisticamente utile, anche se interpretativamente
carente.
Organi
multidisposizionali
Gli organi
multidisposizionali a controllo volontario acquisiscono la loro
strumentalità, con tutte le precisazioni fatte sopra, per il fatto che la loro attività ha un
maggiore potere causale nei confronti degli Stati Finali di un CA. le
specificità disposizionali, cioè, in sostanza, la forma biologica degli organi
ad accesso volontario, naturalmente, ha anche un’azione di vincolo sull’azione.
La forza degli arti, la capacità di pressione, la forma delle ossa, insieme a
tutti quegli elementi di rappresentazione del proprio corpo, gli schemi
d’azione che la forma del corpo impone ai movimenti finiscono per influire sul
concetto d’azione. Uno SO del CA SETE influirà sull’azione se esso consiste
nella credenza che l’unica fonte di acqua disponibile è fisicamente
irraggiungibile. La revisione di uno stato operativo può condurre alla
revisione di tutto il concetto, cioè dell’insieme degli elementi, eretti a
sistema, che informa l’azione.
Le funzioni sono cioè
la categorizzazione astratta, operata per induzione sul comportamento d’organo,
degli SFM degli organi, che in nessun modo sono pensabili come rappresentazione
attribuibile all’organo stesso.
I Concetti dell’azione sono attribuiti, non pensati come
effettivamente presenti nelle menti delle altre persone. Ma, essi, sono
analizzabili tramite dei semplici schemi astratti, come per l’appunto quelli
del concetto dell’azione, senza pretendere che sia l’unico possibile
Finalismo dei
concetti
Che ragione avremmo di fare tutte le cose che facciamo
giornalmente se non perché ne abbiamo un motivo, o meglio, se non perché vi è
qualcosa nella nostra mente che ci permette e, in qualche modo, ci obbliga ad
agire così piuttosto che in un'altra maniera? Perché non ci muoviamo secondo schemi del
tutto casuali? D’altro canto spontaneamente revochiamo le abilità di
finalizzazione a soggetti il cui stato mentale è compromesso da qualche
malattia, come la schizofrenia o l’autismo (o alle persone in stato comatoso).
Queste persone sono o troppo o troppo poco prevedibili nella loro mobilità e
capacità di realizzazione di scopi (tendendo conto del fatto che lo scopo e gli
atti mediali che portano allo scopo sono l’unica cosa che vediamo del concetto
dell’azione). Il concetto dell’azione
perciò non è un elemento intrinseco alle azioni tale che esse o ce l’hanno, e
dunque sono finalizzate, o non ce l’hanno, e dunque non lo sono. Esso è
piuttosto un elemento di discrimine soggettivo, contingente, legato ai contesti
in cui l’azione si svolge e soprattutto all’interazione sociale entro la quale
si svolge e viene osservata o auto osservata.
::
In un celebre esperimento gli sperimentatori attaccano al
cranio dei soggetti, a loro insaputa, degli stimolatori magnetici. Dopodiché
chiedono a tali soggetti di alzare il dito destro o sinistro, a loro
piacimento, davanti a certi stimoli. Gli sperimentatori poi mettono in moto gli
stimolatori, causando, nel corso dell’esperimento, l’alzata del dito destro o
sinistro per le vie neurali. I soggetti non si accorgono di nulla, e, una volto
che viene richiesto loro di farlo, essi cominciano a esprimere delle
spiegazioni sul perché avevano alzato un dito piuttosto che l’altro. L’alzata
del dito in questo caso non faceva altro che stimolare una mera funzione
d’organo, causando un SMF, ma i soggetti percepirono quel gesto come se vi fosse
un SF, e cioè un concetto d’azione. Essi perciò attribuirono a loro stessi la
paternità di quel gesto, e contemporaneamente a ciò, ne modellarono una
spiegazione causale, cioè ne diedero un concetto d’azione.
Se sostituissimo lo
stimolo magnetico applicato al cranio con lo stimolo che il normale ambiente
circostante invia al cervello, percezioni ecc. cosa avremmo?
Se tutti questi imput fossero in grado, da se, di causare
una risposta comportamentale del corpo, mediata dal sistema nervoso in maniera totalmente
arappresentazionale, tale da produrre una variabilità sufficiente del
comportamento stesso, avremmo comunque un concetto d’azione. Perché esso stesso farebbe comunque parte del
corredo comportamentale del sistema. La
spiegazione, cioè l’evidenziazione auto o etero attributiva del concetto
d’azione, è parte stesso dell’output comportamentale; essa è prodotta
spontaneamente, o per dirla altrimenti, la nostra mente è naturalmente disposta
a produrla. E non solo, essa è parte anche degli imput verso il comportamento,
giacché i concetti d’azione fungono da base per la modulazione del
comportamento di risposta nei confronti dell’altro in un’interazione sociale.
Essi però sono solo inferibili, hanno carattere empirico e non “trascendentale”.
Non sono sottoponibili ad un test univoco di verità, e non iniziano in uno
stadio preciso del comportamento; possono dare adito a diatribe, anche
interiori, e la loro indagine può concludersi con un nulla di fatto.
Funzione e fine
Non vi è cioè soluzione di continuità tra funzionalità e
finalità. Ma tra le due vi è una stretta relazione. È infatti l’insieme di tutte le funzioni d’organo che rende al soggetto
il suo afflato finalistico.
Il funzionamento globale dell’organismo, cioè la contemporanea
attività di organi non accessibili e (più o meno) accessibili conferisce
all’organismo stesso quella fluidità dei movimenti e quell’uso competente
dell’ambiente che ci fa riconoscere in esso l’attività finalizzata.
Ma esiste la finalità, indipendentemente dal comportamento
fluido, ecologicamente situato?
Oppure non sarebbe piuttosto meglio dire che ciò che
chiamiamo attività finalizzata altro non è che un’attività funzionale ad alta
complessità?
Se guardiamo con gli occhi del senso comune, e parliamo con
la sua bocca, allora viene da dire che se io prendo un bicchiere e bevo, lo
faccio perché volevo bere, cioè volevo
prendere il bicchiere al fine di bere e dunque al fine di soddisfare la mia
sete. Ma, vista da un altro versante, cioè quello dal quale guardiamo ai
nostri organi, ciò che noi vediamo è un individuo della specie umana che ha
sviluppato una disposizione globale (cioè ascrivibile al funzionamento
dell’intero organismo) di reiterazione del gesto di bere, e che questa
disposizione – imputabile alla struttura biologica di cui è composto
(soprattutto quella dell’organo cerebrale) – ha permesso, essendo propria della
specie, agli individui di questa specie di stabilizzare quella forma biologica
specifica, per l’appunto, utilizzando i benefici che il rifornirsi
saltuariamente di liquidi comporta.
Vi è una mole enorme di attività che svolgiamo; tra queste
ve ne sono di adattive e di antiadattive, di dannose e di edificanti. Ma il
fatto che ve ne siano di dannose non comporta che l’attività finalizzata non
possa essersi evoluta come un funzionamento globale dell’organismo; poiché l’importante, affinché una funzione si
stabilizzi nel tempo, è che non incida troppo negativamente sulla fitness,
anche quando non la migliora. Ma è probabile che nel complesso la migliori,
eccome! Ciò detto, possiamo azzardare l’ipotesi che sia impossibile distinguere
in maniera troppo netta tra funzione e fine, ma che, alla malaparata, vi siano
ragioni per ricondurre l’attività finalizzata nell’ambito della attività funzionale
piuttosto che il contrario. Sottolineiamo però che è davvero difficile pensare
di attribuire finalità ad ogni singolo organo, anche quando volontariamente o
sensibilmente accessibile. Si dirà che questo non è impossibile in linea di
principio ma solo in via empirica; il che è giusto, a patto che si precisi che
la via empirica tramite la quale assegniamo valore finalistico ad un’azione non
è improntata al riconoscimento in
quell’azione di un segno evidente della finalità. Quando noi rinveniamo in un
comportamento variabilità, indeterminabilità e parziale impredicibilità non
riconosciamo un segno del finalismo,
bensì veniamo pervasi da un senso di
finalismo. Se approfondiamo la questione, e cerchiamo di determinare
ulteriormente le caratteristiche di questo senso, non troviamo nient’altro che
il funzionamento globale dell’organismo, nella sua copiosa
multidisposizionalità.
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